Bolé: prova d’assaggio del primo spumante Millebolle della nuova DOC Romagna Spumante
Il Bolé è l’ultimo dei vini creativi che sono stati pensati per scalzare il predominio del Prosecco, la risposta romagnola all’ombretta di Treviso, un vino che si presenta con una etichetta ammiccante e grandi aspettative. E il Bolé è solo il primo di una nuova stirpe di vini che rappresenta la Doc Spumante Romagna e prende il nome di Millebolle: un brand.
Ma prima di parlare del vino Bolé è necessaria una premessa: questo vino nasce da due colossi dell’industria del vino Cevico e Caviro, che hanno confezionato ad hoc un vino commerciale e una campagna pubblicitaria colossale che è andata a riesumare, udite, udite, la vecchia Sciampagna romagnola. Un vino che nel morire dell’Ottocento veniva prodotto da Imola fino a San Mauro Pascoli con un certo successo, ma che poi è morto ed è stato sepolto con buona pace di tutti.
Avete letto bene, Sciampagna Romagnola! Ma allora vi starete chiedendo se ci sono marne preziose, mastodontici giacimenti di calcare in Romagna, un terroir incredibile e unico al mondo, se c’è l’influsso dell’oceano atlantico, un’escursione termica pazzesca e una perizia produttiva senza precedenti per giustificare la nascita degli spumanti Millebolle…
No, niente di tutto questo, anzi la Romagna è una piana dalla fertilità inaudita, ottima se volete coltivare albicocche e pesche, ma fatale se volete produrre vini di grande qualità, a parte la piccola oasi felice del Longanesi di Bagnacavallo. Non a caso la maggior parte delle cantine artigianali coltiva vigneti sull’Appennino. Quello che non manca in Romagna è il Trebbiano, coltivato con metodi intensivi, con rese per ettaro paurose. C’è anche chi riesce a produrre un Trebbiano favoloso e biodinamico come il magico Babini, con il suo JPB1, il quale ha riconvertito in biodinamico un vigneto un tempo usato per produzione industriale, ma stiamo parlando di un maestro del vino. L’Emilia, con il suo buon Lambrusco di Sorbara e i piccoli, grandi produttori come Paltrinieri, Graziano, il Saliceto, Bergianti e Danny Bini, è tutto un altro discorso, anche se in questo caso si potrebbe fare lo stesso discorso per le industrie di queste bevande frizzanti dal gusto discutibile.
Detto questo non abbiamo ancora detto una sola parola sul vino Bolé, ma fa niente, non è molto importante il vino in sé: è la sua genesi ad affascinare. Infatti manca ancora una constatazione importante: la nuova sfolgorante DOC Spumante Romagna, nata per giustificare un vino come il Bolé.
Se la vogliamo esaminare dal punto di vista della sopravvivenza aziendale è brillante, prima si riscoprono le radici storiche di un vino deceduto un secolo fa, poi si crea una DOC a puntino per darle dignità e poi si fa un lancio pubblicitario in grande stile. E va bene, uno dei produttori produce anche il Tavernello, sappiamo quello che compriamo, nessuno punta il dito contro chi beve il Tavernello, rispetto per tutti. Ma guarda caso il nome Caviro non compare in etichetta. Ah, certo hanno messo tutto dentro la Bolé SRL…
Tuttavia una cosa che fa rodere e getta ombre inquietanti sulla Romagna è il disciplinare di questa DOC Spumante Romagna. L’uva deve essere prodotta in Romagna, ma poi può essere vinificata anche nelle Marche, nel Veneto, a Conegliano per citare un luogo con cui il Trebbiano andava così d’accordo, poi in Lombardia e perché no anche in Piemonte. Insomma la Romagna ci mette l’uva, quella buona di pianura e poi fa vinificare a chi ha più esperienza.
E come detto è un’operazione intelligente sul breve, questa estate la Riviera Romagnola era sommersa dal Bolé, ma alla lunga offusca il movimento di rinascita del vino romagnolo. Ma soprattutto ridicolizza l’autorevolezza della DOC Romagna, il concetto di territorialità e artigianalità del vino romagnolo, il vino come andrebbe fatto, cioè prodotto da una persona nella sua cantina e ne industrializza la natura, parte già anonimo. Ed è un concetto di una tristezza infinita e sconsolante.
E che una DOC venga plasmata così facilmente partendo dal nulla per creare opportunità commerciali, senza tenere conto delle caratteristiche del territorio, disturba. E non stiamo parlando della rivoluzione Sassicaia e del successivo Bolgheri, dove effettivamente esistevano presupposti per dare il via ad un processo di genesi.
Per cui a questo punto la vera domanda, quella importante che mette in discussione un sistema, è se davvero la DOC è garanzia di qualità per il consumatore e ha senso di esistere?
Che cos’è la DOC, se la possono cambiare a piacimento: una garanzia per il consumatore o uno scudo, un aiuto per vendere? Ma non dovrebbe nascere come difesa di una tipicità la DOC? E badate bene che siamo in Emilia Romagna, regione eletta da Forbes come (rullo di tamburi!) regione in cui si mangia meglio al mondo, regione che offre piatti incredibili e il maggior numero di DOP, IGP e STG con 291 prodotti.
Forse dovremmo farci due domande e chiederci se davvero la DOC è garanzia di qualità per chi compra. Lo stesso discorso vale ovviamente anche per il Prosecco, visto i ritmi con cui vengono allargati i suoi confini di produzione, ma ne parleremo un’altra volta.
Ma in fondo la ragione di questa operazione è semplice: il prosecco va di moda, anche il vicino Pignoletto frizzante prende piede, per non parlare delle valanghe di ettolitri di Lambrusco simil-bevanda e allora cosa facciamo noi in Romagna, stiamo a guardare, perdiamo questo treno del frizzantino? Non vogliamo produrre una bella bolla da esportazione per la Cina?
Siamo arrivati in fondo, adesso possiamo parlare finalmente del vino prodotto dalla Bolé s.r.l Faenza e spumantizzato da FO11944/IT, che non sono altri che Caviro, produttori anche dell’aberrante Sangria Senorita, e Cevico.
Ok, ma almeno è buono questo spumante Bolé?
No, è un vino piatto e anonimo, poco profumato, mortificato sia nell’aromaticità che nello sviluppo gustativo da quantità colossali di solforosa. Ormai i vini industriali hanno raggiunto un grado di potabilità che stupisce, non sono cattivi, sono solo costruiti, senza anima né profondità. Se lo bevete ghiacciato va giù, perché almeno hanno avuto la decenza di produrlo Brut e così non ha quella stucchevole fruttosità che tende quasi al dolce, ma per il resto è un vino con una persistenza che svanisce in pochi secondi. Se questa è la Sciampagna romagnola che faceva tremare lo Champagne francese, c’è ancora molta strada da fare. A questo punto visto che vogliamo sfidare i francesi a tutti i costi e che usano anche loro il Trebbiano, il prossimo passo è produrre Cognac e Armagnac (due AOC molto serie) di Romagna e poi trovare un bel nome di fantasia! Romagnac sarebbe bello!
Bolé, una bella storia che forse non andava raccontata…