Shōchū: che cos’è, dove nasce, come si produce
Il shōchū è la tipica acquavite giapponese prodotta da un mosto fermentato di riso o cereali o anche patate, semi di sesamo, castagne, verdure, frutta o i resti dei lieviti usati per fare sakè.
Quella che a prima vista potrebbe sembrare una vodka giapponese in realtà è un distillato particolarissimo che viene prodotto solo in Giappone, con un metodo unico, visto che il mashbill viene “maltato” e fatto fermentare grazie all’inoculo della famosa muffa kōji, usata anche nel processo di produzione del sakè. Spieghiamo al volo il processo. Il riso non è ricco di zuccheri, ma di amidi che non sono fermentabili, sono troppo complessi. Se fate un esperimento e lasciate del riso in acqua, non succederà nulla, mentre se lasciate delle pesche o dell’uva i lieviti presenti nell’aria avvieranno la fermentazione. Entra il gioco questo misterioso Aspergillus oryzae, che non è altro che una muffa, la quale grazie ai suoi enzimi scompone l’amido in zuccheri semplici come glucosio e saccarosio, facilmente fermentabili. Viene aggiunto uno starter e poi la fermentazione può partire.
Grazie a questo accorgimento il shōchū non solo è particolare, ma diventa unico, grazie ai sapori unici dati dalla muffa kōji, che aiuta a sviluppare profumi sottili ed eterei.
Classificazione del shōchū
Esistono due tipi di shōchū: la lavorazione, il tipo di alambicco e l’abissale differenza di qualità delle materie prime determinano due tipi di prodotti che sono agli antipodi. Uno è industriale e insapore, l’altro artigianale e dotato di finezza e tipicità uniche.
Il primo è quello che assomiglia ad una banale vodka di bassa qualità e si chiama kōrui shōchū e solitamente è prodotto da un mashbill di patata, melassa varie e frutta, che però non deve mai essere germinata, ma solo fatta fermentare con il kōji. La distillazione è multipla per eliminare anche la minima impurità e avviene tramite alambicco continuo, ma parliamo di mastodonti da migliaia e migliaia di litri al giorno, non di goccia dopo goccia. Il risultato è praticamente alcol etilico e il sapore finale è determinato più dall’acqua che dal distillato stesso. Il grado alcolico viene abbassato fino a raggiungere i 25 gradi. Solitamente si beve per ubriacarsi in maniera convulsa o fare cocktail o per la produzione di liquori come umeshu.
Il secondo è tutto un altro mondo: il otsurui shōchū, chiamati anche solo otsu. Viene prodotto con materie prime di grande qualità, ma che sono semplici: riso, mais, grano, le fecce derivanti della lavorazione del sakè, patate, segale, grano saraceno. Quasi sempre gli otsu sono moromitori shōchū, nome che deriva dal tipo di produzione, caratterizzato da doppia fermentazione e singola distillazione. Si parte da un mashbill di orzo o riso che viene immerso in acqua e cotto per far gelatinizzare gli amidi, esattamente come si fa con il mais per il Bourbon whiskey. Si inocula il kōji-kin, che grazie ai suoi enzimi demolisce l’amido in zucchero fermentabile. Si aggiunge acqua calda e si lascia fermentare fino a nove giorni. La seconda fase prevede una seconda fermentazione dell’ingrediente (patate, riso, grano saraceno) che andrà a determinare i sapori e il tipo di distillato. Si cuoce al vapore il nuovo mashbill con acqua calda, si aggiunge alla base precedente di alcol, si lascia fermentare e poi si distilla tutto una sola volta, per preservare i sapori primari della doppia fermentazione. Solitamente la gradazione è più alta rispetto al kōrui e può raggiunge i 45 gradi alcolici.
Non abbiamo ancora parlato dell’importanza dell’acqua. Come per tutti i distillati, l’acqua è fondamentale e il Giappone, come la Scozia, è ricco di sorgenti, anche vulcaniche, come nel caso della regione del Kagoshima, maggio produttore di shōchū. Molto spesso le distillerie sorgono vicino a fonti di acqua pura per avere materia prima di immacolata purezza.
Invecchiamento del shōchū
Ci sono varie possibilità, ma l’invecchiamento avviene in tutti i tipi di materiale: anfore, botti di legno, cemento, acciaio, vetro e in legno non è fondamentale come per il whisky, anzi, la situazione è molto più fluida. La sua caratteristica è il frutto, la freschezza, le note pungenti e sottili, la spiccata aromaticità. In questo assomiglia molto al pisco peruviano: i produttori fanno dei distillati anche morbidi e vellutati, ma si cerca più spesso la vivacità. In ogni caso l’affinamento serve per smussare l’acidità del distillato, dare rotondità, non tannini o sapori speziati. Dopo tre mesi, è pronto, ma si può optare anche per un invecchiamento di sei mesi, fino a tre anni, per rendere il distillato molto docile e soffice. L’unico che invecchia tranquillamente, anche più di dieci anni, è l’awamori prodotto ad Okinawa, ma per sua natura è acidissimo e quindi gli fa solo bene un lungo riposo.
Tipi di shōchū
Komejōchū, il re, il distillato fatto con il riso. È il più caratteristico, intenso, pensate ad un sakè pompato e più etereo e muscoloso, ma sempre con quel tocco efebico floreale a chiudere.
Mugishōchū, il distillato di orzo, ha gusto delicato e fresco di susine e profumi. Molto beverino se prodotto in versione semplice. Se fatto invecchiare in botte assomiglia alla lontanissima al whisky, ma è molto più morbido e sottile.
Imojōchū, il distillato fatto con le patate, ma non pensate neanche per un secondo alla neutralità della vodka. Questo nettare riesce a distillare svariati sapori di terra, spezie, legno e rimandi di frutta al forno, toni biscottati e tracce di torba. Meno fine del Komejōchū, ma ha una personalità unica. Se vi piacciono i whisky torbati provatelo!
Awamori, apparentemente è un soju, ma ci sono alcune differenze: è fatto esclusivamente con con il riso indica, più lungo e di provenienza tailandese. La particolarità è che subisce una sola fermentazione ed interviene la muffa koji nera, più aggressiva, che conferisce acidità incredibile al distillato.
Perché ci piace il shōchū
Al contrario del single malt, del bourbon e del rye e anche del gin, il shōchū è puro, chiaro specchio di un legame tra tecnica, territorio, uomo e muffa. Il legno non influisce sul sapore, al contrario del whisky dove il legno rappresenta almeno il 60% del sapore del distillato finale. Altra punto a favore è la pazzesca carica aromatica, l’integrità del frutto, la finezza del tratto e la particolarità dei profumi, alcuni davvero unici, soprattutto quelli dei distillati di patate, terrosi e pieni di richiami quasi torbati.
Storia del shōchū
Dobbiamo andare indietro nel tempo e seguire le vie della distillazione, di come si è diffusa in tutta l’Asia, dove ricordiamoci che il riso è alimento cardine. A metà del 1400 sulle isole di Ryukyu, nella prefettura di Okinawa (anche se ai tempi non era ancora Giappone), si iniziò a produrre l’awamori, il primo shōchū, anche se era diverso come abbiamo visto prima. A sua volta l’awamori è la versione di Okinawa del lao khao, un fermentato di riso, a sua volta derivante dall’arrak, il distillato prodotto in tutta l’Asia e nato in Persia. Un passaggio dopo l’altro, i distillati si trasformano e si adattano agli ingredienti locali e quindi da Okinawa è lentamente risalito di isola in isola fino a Kagoshima. Qui si è adattato alle usanze e alle materie prime giapponesi. A Kagoshima fa troppo caldo per produrre sakè e infatti in questa regione non si produce altro che il shōchū. Non si fa sakè, non si fa birra, nulla, solo alcolici duri e puri. Il clima è praticamente tropicale, con grande umidità e caldo soffocante e per rinfrescarsi una buon distillato di riso è quello che ci vuole.