Da Enzo Al 29, la recensione: come si mangia
Mangiare da Da Enzo Al 29 è una delle esperienze gastronomiche più appaganti e goduriose che si possano fare a Roma: è uno dei ristoranti più tipici e rigorosi della città, un luogo ancora dotato di anima, dove cortesia, gusto e un certo fascino retrò-pop sono di casa.
La posizione è strategica, proprio all’inizio di Trastevere. Venendo dal centro storico, bastano due passi, attraversate il ponte Palatino, ancora un minuto e potrete sedervi ad una delle migliori tavole di Roma.
Dopo una mattinata spesa per visitare per il Colosseo, i Fori, la Basilica Papale di Santa Maria Maggiore, San Giovanni in Laterano e il Palatino, potrete rifocillarvi con i grandi classici della cucina capitolina: carciofi alla giudia, carbonara, amatriciana, pasta con il sugo di coda, la coda alla vaccinara e per finire il mitico tiramisù nel bicchiere.
Niente di nuovo sotto il sole, la ricerca stilistica è chiara, spartana: offrire piatti curati e sensuali, pieni di sapore e pepe. Tutto è molto curato, abbondante, lipidicamente appagante e ti sazia. Se prendete una trinità di fritti e un primo vi sfondate. Se aggiungete il dolce dovrete correre una maratona per smaltire ler 2000 calorie.
Come sono i piatti del ristorante Da Enzo Al 29
Troverete la carbonara in spuma di guanciale con aria azotata di tuorlo? È un ristorante rivoluzionario? Assolutamente no e non lo vuole essere. Da Enzo Al 29 vi vuole stupire con la spartana bontà dei suoi piatti, non con tecnica o salse futuristiche. Ingredienti di prima scelta, gusto e atmosfera rilassata.
Gli antipasti.
I carciofi alla giudia erano cotti in maniera impeccabili. Croccanti, asciutti, golosi. Siamo stati fortunati, l’olio della frittura era appena stata cambiato, in ogni caso sono tra i migliori carciofi di Roma.
Fiori di zucca fritti: buoni, ma sottotono. Appesantiti da una pastella che affondava i sapori e faceva da corazza, non da scrigno.
Le bombe di formaggio, tipo crocchette napoletan style, erano sfiziose, ma niente di più, un simpatico interludio prima della battaglia vera.
I primi piatti
La Carbonara
Partiamo dal piatto cardine. Ben fatta, cremosa, con rigatoni cotti al dente che affogano in una crema di tuorlo e pecorino perfettamente amalgamata, dalla consistenza eccellente. In giusta tensione tra sapidità e cremosità. Spettacolare.
La Gricia, da brava gemella diversa, è unta al punto giusto, dotata di quel fascino onirico che solo il connubio tra pepe e guanciale riesce a creare.
La pasta cacio e pepe era solenne, iperbolica nella concentrazione dei sapori, coronata da una pioggia di pepe, ma dal divin sapore.
L’Amatriciana ha un sugo confortante e caldo. Ti abbraccia con un mare di pomodoro, grasso e pecorino fusi in un amplesso primordiale. Molto saporita, il boccone è irresistibile, ha imposto la scarpetta con il buon pane della casa. Pepe e sale spingavano sul palato, ma Ha creato uno scisma. Deluderà chi è abituato ad un sugo tirato a lucido e asciutto con il pomodoro che tinge soltanto la pasta. Questa annega in un sugo denso, pieno di Pecorino Romano. Il piatto è molto rustico, ma sinceramente irresistibile.
La pasta con il sugo di coda è agli antipodi: poco sugo e molta carne sfilacciata. Un piatto di tribale fascino romanesco, con quella spolverata di cacao sopra che non lascia scampo. Più azzimato come piatto, lascia da parte la parte pecoreccia per spiccare il volo. In ogni caso buonissima e ben equilibrata.
L’abbacchio è classico, senza acuti, delicato, di facile approccio.
La coda alla vaccinara ha scatenato l’inferno. Ha pochi pinoli, non c’è il sedano, è blanda. Nel complesso è un piatto onesto, semplice nella sua impassibile semplicità, ma non risulta così incisivo. La carne è buona, ma di per sé non eccezionale, ma la carne di coda non è che abbia tutto questo sapore. La cottura però era ottima. Il cacao dà contrasto, i pinoli ci sono anche se sono pochi, ma nel complesso fa il suo dovere.
Le cicorie saltate in padella sono essenziali, prendetele sempre per sgrassare la bocca, sono ottime e a chiamarle contorno le si fa un torto.
I dolci sono una bomba di gusto e calorie, fatti con amore. Ancora una volta la parola d’ordine è semplicità, non di gusto, ma di concetto. Il tiramisù è stupendo, picchia duro, ma ha una consistenza immaginifica. Irrispettoso delle vostre coronarie, scorre senza indugio un cucchiaio dopo l’altro.
Parliamo un attimo dell’ambiente e del “problema” file. Da Enzo Al 29 è uno dei ristoranti più iconici di Roma e quindi troverete sempre file chilometriche, d’altro canto il posto è piccolo e non si può prenotare. In inverno potete mangiare fuori con la giacca e se siete fortunati, in una giornata di sole, starete da dio.
Bonus per la signora che abita al piano di sopra e si ferma a fare amabile conversazione raccontandoti mille aneddoti del quartiere.
L’unico problema sono le macchine che ogni tanto si avventurano nel vicolo e vi sgasano sull’amatriciana, ma non si può avere tutto dalla vita.
La nostra ultima visita risale al 2 febbraio 2022, pochi giorni fa quindi. Un periodo sicuramente di fiacca fisiologica, senza parlare del deserto creato dal Covid. Trovare turisti era una rarità. Al Colosseo ci saranno state 60 persone al massimo, tutta gente che poi è andata a mangiare lì. Ai bei tempi la fila era di ben diversa dimensione. Quindi se volete andarci, siate prudenti e anticipate. Se arrivate all’una è un disastro.
Prezzi
Molti diranno che è costoso. Un piatto di carbonara costa 15 euro, troppo forse? Innanzitutto, bando alle solite banalità che la robba ha da costà poco e le trattorie devono essere pop, che c’è povertà, crisi e i pastori mangiavano la Gricia con le pecorelle sul Gransasso e spendevano molto di meno. Non perdete tempo con i rosiconi di tripadvisor.
Non è sicuramente a buon mercato, spingono molto sull’immagine della tipicità e siamo un locale storico, però (una volta tanto) è tutto vero, non una trovata da marketing da templari del guanciale. La caratura dell’esperienza è innegabile, la gentilezza unica e il posto un pezzo di storia vivente, grazie a persone solari che mantengono viva la tradizione con rigore. Quindi non è caro, si paga la conoscenza, l’atmosfera, il fatto di stare bene e sereni e non solo il piatto in sé. Ma finché andremo avanti a considerare la ristorazione solo come mera operazione meccanica di trasformazione di ingredienti in un piatto quantificabile in euro, avremo consumatori provinciali.
Se compri la pancetta della lidl, ok, fai quello che vuoi, ma la qualità si paga, la tradizione stessa si paga. Senza contare che i piatti sono abbondanti e si possono dividere, non è un posto in cui pranzare tutti i giorni, anche per ovvi motivi di sopravvivenza colesterolica. Se un piatto di carbonara la paghi 7 euro forse è il caso di farsi due domande sulla provenienza degli ingredienti, delle condizioni di lavoro (ed economiche) del locale e forse sarebbe il caso di leggere un piccolo capolavoro di illuminazione sociale come Il dilemma dell’onnivoro di Michael Pollan. Se paghi poco il piatto lo sta pagando qualcun altro.