Le Assaggiatrici: Il Film Che Racconta la Guerra Con Lo Sguardo di Chi Deve Solo Sopravvivere
Non è un film di guerra, ma un film sulla guerra che abita i corpi, le menti, le abitudini, che si insinua dove nessuno pensa di trovarla: a tavola, nel gesto quotidiano di mangiare. Con Le Assaggiatrici, Silvio Soldini firma il suo primo film in costume – interamente girato in tedesco – e ci restituisce un racconto crudo e intimo tratto dall’omonimo romanzo di Rosella Postorino, vincitore del Premio Campiello e ispirato alla vera storia di Margot Wölk, unica sopravvissuta tra le donne che assaggiavano il cibo destinato a Hitler nella sua “Tana del Lupo”.
Il film arriva in sala dal 27 marzo con Vision Distribution, e si impone come uno dei lavori più intensi e maturi del regista di Pane e Tulipani, grazie a una narrazione trattenuta, ma mai distaccata, che affonda nei drammi interiori con precisione chirurgica.
Una roulette russa quotidiana: la trama
Autunno 1943, Prussia Orientale. Rosa Sauer (interpretata da una intensa Elisa Schlott) fugge dai bombardamenti di Berlino per rifugiarsi dai suoceri. È sola: il marito è al fronte. Viene prelevata dalle SS e portata in una struttura isolata nella foresta. Lì le viene spiegato il suo nuovo “ruolo”: assaggiare il pasto del Führer, due volte al giorno. Insieme ad altre sei donne, Rosa diventa una cavia umana, uno scudo involontario contro l’eventuale avvelenamento di Hitler.
Mangiare non è più un piacere, ma un esercizio di sopravvivenza, una roulette russa che le mette davanti ogni giorno alla possibilità della morte. La fame, l’angoscia, la solitudine, la nostalgia e la paura si mescolano a un senso di colpa latente, a un’identità che si disgrega sotto i colpi del terrore, ma anche a forme di solidarietà nuove, silenziose, che sbocciano tra le compagne.
Un film sul corpo femminile in tempo di guerra
Il film è una potente riflessione sulla dimensione femminile del conflitto: non ci sono armi in mano alle protagoniste, ma i loro stessi corpi sono esposti al rischio, utilizzati, sorvegliati, giudicati. Soldini costruisce un racconto sospeso, minimalista ma carico di tensione emotiva, in cui ogni gesto, ogni sguardo ha un peso. Rosa non è una vittima passiva: cambia, si trasforma, e nel momento in cui perde ogni certezza – anche quella dell’amore – compie una scelta radicale.
A rendere più complesso il quadro, c’è una relazione ambigua con l’ufficiale delle SS Ziegler (Max Riemelt), un uomo tanto spietato quanto inquietantemente umano, capace di confidenze e fragilità che portano Rosa a confrontarsi con un livello ancora più profondo di orrore. È lì, nel cuore della contraddizione, che la protagonista prende coscienza del proprio trauma e della possibilità – o meno – di reagire.
Una regia sobria, un linguaggio che emoziona senza retorica
Soldini evita gli eccessi, preferisce il non detto, e affida alle immagini il compito di scavare. Gli spazi sono chiusi, silenziosi, claustrofobici. Le tavole da pranzo sono i veri campi di battaglia. La tensione è amplificata dalla fotografia rarefatta e dal suono ovattato: la paura si consuma lentamente, in silenzio, come un veleno.
Ma è proprio in questo clima opprimente che emerge la forza dell’empatia, che risveglia in Rosa e nelle altre donne una coscienza sopita. Insieme, ritrovano l’umanità come atto di ribellione, come unica salvezza possibile.
Un punto di vista inedito sulla Seconda guerra mondiale
A differenza di molti film ambientati nel periodo nazista, Le Assaggiatrici sceglie uno sguardo intimo e marginale, ma proprio per questo potentissimo. Niente campi di battaglia, nessuna retorica della Resistenza: qui si racconta la guerra quotidiana, vissuta nel gesto più banale e carico di significato: quello del nutrirsi.
Un racconto che parla al presente, che interroga sul concetto di obbedienza, di paura, di scelte obbligate, di complicità inconsapevoli. E soprattutto che mette al centro il corpo femminile come territorio occupato, come campo di battaglia simbolico ed emotivo.