Si torna a bere in ristoranti, pub e winebar, ma i giovani sembrano astemi
Grazie ai vaccini ormai l’emergenza Covid si è placata, vediamo la luce in fondo al tunnel, luce che può essere stroboscopica se frequentate discoteche, ma anche soffusa e accogliente se siete dei frequentatori di pub, ristoranti e cocktail bar.
Il ritorno al rito sociale degli aperitivi, con tutti i corollari della birretta, del Gin Tonic o del classico calice di vino (profumato, ma secco, leggero, ma fruttato, naturale, ma che non puzzi, autoctono, ma che non sia hipster) è tornato, che piaccia o no. Adesso mettiamo al bando video degustazioni e call con i maestri delle dirette, acqua passata.
Il desiderio così connaturato alla natura umana di interagire e lubrificare le proprie relazioni sociali con alcol è tornato a livelli pre-Covid. La convivialità è tangibile, soprattutto dopo questa estate così soffocante e un numero indefinibile di lockdown, privazioni, editti e bolle governative.
Serve il Green-Pass, il numero è contingentato, ma dopo il ritorno in ufficio, adesso è arrivato il momento di tornare a bere, con eleganza e moderazione, ma il discorso è un altro. I giovani vedono l’industria delle bevande come dannosa, e giustamente lo è. L’abuso e anche un consumo molto moderato di alcol è dannoso per cervello, cuore e malattie cardiovascolari e diciamo pure basta alle bufale degli antociani e dei tannini buoni. L’alcol causa il cancro e con questa realtà ci dobbiamo convivere, per cui prendiamone atto e abbandoniamo il mito del buon bicchiere di “vino sano”.
Tuttavia, non vogliamo parlare dei rischi correlati al consumo di alcol, ma come stia cambiano la percezione dell’alcol e del mercato. E quindi la domanda è: sono solo i vecchi, e per vecchi si intende una fascia di consumatori con più di 30 anni, a bere?
Non proprio.
Le vendite di agosto e settembre della catena di pub del Regno Unito Mitchells & Butlers sono in netto aumento rispetto allo stesso periodo di due anni fa, così come i numeri dei gourmet che hanno vistato ristoranti in Germania e Irlanda prenotando attraverso il sito di OpenTable.
Heineken ha riportato vendite in America, Medio Oriente e Africa paragonabili a quelle del 2019, prima del disastro Covid. “Il desiderio umano di incontrarsi davanti a una birra o un drink in un bar o in un ristorante è universale in ogni momento”, ha detto la scorsa settimana l’amministratore delegato del birrificio Dolf van den Brink.
Ma come sono cambiate le abitudini dei consumatori?
Certo, la riapertura rappresenta sia un’opportunità che una sfida per l’industria delle bevande, che sta cercando di riprendersi dopo un calo vertiginoso delle vendite, che si aggira intorno al 6% a livello mondiale. Recuperare forse non sarà possibile per due motivi molto semplici: i consumatori bevono meno (ma spendono di più e cercano prodotti premium) e generazione Z e millenials non sono consumatori di alcol formidabili e sanno chiaramente che è dannoso per salute mentale e corporea.
Ma allora il lockdown non ha fatto crescere le vendite di alcol?
Certo, ma non di tutti. I produttori di fascia alta hanno prosperato quando i consumatori, segregati in a casa, hanno iniziato a scoprire l’arte di fare cocktail homemade, hanno sorseggiato mezcal artigianale da 150 euro la bottiglia e, non potendo spendere in altro modo, ci hanno dato dentro con spese pazze, comprando prodotti affinati, di grande qualità, di taglio sartoriale. Chiamateli come volete, ma quando iniziate a bere dei gin affinati gin come il Gin Mulberry Barrel Aged “Hart & Dart” (costo 90 euro) o anche uno splendido Gin del Professore Crocodile (40 euro), capite bene che tornare al gin and tonic con il gin della Lidl è improponibile.
Ecco se c’è un lato positivo in tutta questa faccenda del Covid e della prigionia da lockdown è che la gente ha imparato che la qualità esiste e ti cambia la vita. Si paga, ma basta bere meno e meglio ed eviterete la cirrosi epatica e la demenza senile.
Ho fatto un test su strada con mio cognato. Per mesi l’ho nutrito solo con gin di altissimo lignaggio e “vini naturali”, l’ho educato e bastonato, gli ho tolto il pelo da vecchia spugna inzuppata di prosecco e ora è un piacere sentirlo parlare delle nuances di elicriso del Sangiovese di Modigliana o delle suggestioni di salicornia del Gin Primo. L’ho salvato? Forse no, dato che si sta bruciando tutti i suoi risparmi in rum agricoli millesimati e whisky indiani, ma almeno il suo palato un giorno mi ringrazierà.
La tendenza è stata particolarmente pronunciata tra gli americani, che già tendevano a bere più a casa che fuori. A differenza del resto del mondo, il loro consumo totale di alcol è aumentato lo scorso anno. Un record a cui noi facciamo volentieri a meno, ma almeno è giusto riconoscere loro questo glorioso primato.
Ora la palla passa ai grandi conglomerati dell’alcol come Diageo e Pernod Ricard, che hanno recentemente riportato ottimi risultati. Riusciranno a mantenere le vendite così alte e il ritmo sostenuto? Avete notato quanto sono aumentate le collaborazioni con addetti, barman, influencer in questi ultimi mesi? Quanto sia stressante tutta questa narrazione continua, questa ricerca del bello e del prodotto ritagliato solo per te sui social? Tutte queste storie neanche Shahrazād delle Mille e una notte riuscirebbe e raccontarle…
Ma torniamo al tema principale: si beve meno. “Bevi meglio, non di più” è diventato il grido di battaglia del settore dei nuovi cavalieri teutonici del mondo del beverage e dei maghi del marketing. La narrazione verso la qualità si è fatta slogan, verbo terracqueo che percorre tutto il globo.
La vendita di volumi inferiori di prodotti più costosi aumenta i margini per l’industria del beverage e il processo di invecchiamento utilizzato per creare prodotti di prima qualità significa che l’aumento dei prezzi delle materie prime non raggiunge immediatamente i clienti.
Emblematico è il caso del gigante giapponese Suntory, che sta radicalizzando questa tendenza con un whisky venduto a $ 60.000 a bottiglia. Se prendiamo in esame la Diageo e la sua categoria “super premium” che include la tequila Casamigos (fondata dall’attore George Clooney) e le versioni deluxe del whisky Johnnie Walker, notiamo che è cresciuta del 35%. Hanno rappresentato quasi la metà della crescita delle vendite nette nell’anno conclusosi a giugno.
Ma adesso parliamo di quello che sarà il vero ago della bilancia: i giovani. Concentrarsi sulla qualità crea anche spazio per il settore, per affrontare una delle più grandi minacce alla redditività di lungo termine: i clienti della Generazione Z e dei millennial sono molto meno attratti dall’alcol rispetto alle generazioni precedenti.
Secondo un nuovo sondaggio Jefferies su 4.000 consumatori, i giovani erano l’unica fascia di età in cui era presente la consapevolezza della pericolosità legata al consumo di alcol.
Ma il sondaggio di Jefferies ha messo in luce un altro dato rassicurante. I giovani scettici sull’alcol non sono moralmente contrari al bere o particolarmente attaccati alla socializzazione online piuttosto che di persona, ha scoperto. È soltanto che non vanno pazzi per i postumi di una sbornia e si preoccupano dell’impatto dell’alcol sulla loro salute mentale e sui loro portafogli.
L’ascesa delle bevande alcol-free e del vino dealcolato
Non a caso, la crescita di bevande per adulti a basso contenuto di alcol e senza alcol sta vivendo un boom pazzesco e si assistono a numerosi sdoganamenti, campagne pubblicitarie e investimenti a sostegno di questi nuovi prodotti salubri.
Gran parte dello sforzo dei giganti del beverage si concentra su nuove versioni fiammanti dei loro grandi classici tra cui Tanqueray 0.0, Ballantine’s Light e Brooklyn Special Effects lager. Heineken ha persino cambiato la sua sponsorizzazione dell’Europa League da Amstel Light a Heineken 0.0.
Assistiamo anche ad una sarabanda di grandi acquisizioni di piccole distillerie e produttori artigianali da parte dei gruppi più forti e facoltosi, che non vogliono perdere questa nuova gallina dalle uova d’oro. Pernod ha acquistato una quota di maggioranza negli alcolici senza alcol di Ceder a gennaio e Diageo ha fatto lo stesso con Seedlip nel 2019.
Si prevede che le vendite globali delle bevande prive di alcol o a basso contenuto alcolico cresceranno del 34% da qui al 2025, rispetto il 6% per il mercato totale dell’alcol, afferma IWSR. Per ora il predominio a livello di vendite e immagini è della birra analcolica; tuttavia, è prevista un’esplosione di prodotti più interessanti come gin e vini dealcolati.
Per i produttori di bevande va bene, purché siano i loro prodotti a crescere. Le bevande a basso contenuto di alcol e senza alcol hanno spesso un prezzo simile a quello delle loro controparti alcoliche per preservare la loro immagine di alto livello. Ma comportano tasse, balzelli, accise e dazi molto più bassi. Ciò significa maggiori introiti per il produttore e una discreta presa per i fondelli per i consumatori.
Il futuro è alcol-free? Birra analcolica al posto della gazzosa?
La nuova scommessa dei grandi giganti dell’alcol è proprio questa: che a livello di immagine i prodotti senza alcol sostituiscano nell’immaginario collettivo e nella vita di tutti i giorni le bevande da tutti giorni. Certo, è logico. In pausa pranzo non bevo, altrimenti mi addormento davanti al video e devo fare la siesta come nonno pig… ma immaginate che meraviglia fare una pausa gourmet con un panino ai gamberi conditi con un margarita o un daiquiri, senza avere tutti i problemi legati al consumo di alcol, non vi darebbe una sana e leggera ebbrezza?