Che cos’è il vino naturale, come si fa e perché si chiama così? Esiste o non esiste?
Spesso si parla di vino naturale, vino vero e buono e vino cattivo, industriale, manipolato, piena di diavolerie chimiche. Sono le classiche, inutili discussioni che scoppiano come gli incendi in estate, il caro conflitto che non muor mai: dionisiaco vs apollineo.
Ma in realtà dietro questa diatriba tra gli intellettuali del vino si cela la dicotomia che sta spaccando il mondo dei produttori di vino. Un divisione, a volte faziosa e acrimoniosa, che vuole dividere il mondo in buoni e cattivi.
Ma diciamocelo, dire vino naturale è semanticamente una corbelleria, un errore grossolano che non ha alcun senso. Il vino non nasce da solo, non cresce, non matura, è sempre l’uomo a guidare la natura. E lo diciamo da grandi appassionati di vini che (dovremmo dire) vengono prodotti nella maniera più naturale possibile, ma ancora non ci siamo.
Non è la definizione giusta. Anzi è fuorviante; forse non se ne rendono conto i produttori naturali, ma loro lasciano un segno indelebile nelle proprie creazioni. O forse lo sanno e fanno i modesti o forse si considerano pastori di vigne oppure lo sanno, ma non lo dicono per ragioni marketing perché fa figo dirlo.
Per cui più che movimento naturale stiamo assistendo ad una rivoluzione rinascimentale del vino: l’umanesimo del vino.
L’uomo e la sua vigna sono protagonisti di una rinascita, si liberano dalla sovrastruttura e dall’eccesso tecnico per ricercare un vino più espressivo, radicale e che possa essere libero di rappresentare un territorio.
Perché parliamoci chiaro, se assaggiate una bottiglia di Arianna e Andrea Occhipinti, di Stefano Legnani, di Eugenio Rosi, il Lambrusco di Paltrinieri, il Sangiovese di Pacina e Maria Galassi, il Sauvignon della Castellada, Radikon, Ca del Vent, riconoscerete lo stile, una parte della loro anima che è stata infusa nel vino. Anima è una parola grossa, ma consideriamo il significato originario di soffio.
Ma è naturale che sia così, loro scelgono quali grappoli vinificare, quanto dura la macerazione, se la fermentazione è spontanea, l’affinamento, lo plasmano. E allora torniamo al paradosso di questo vino cosiddetto naturale, ma che in realtà ha un DNA ancora più forte di quello di un vino convenzionale.
E proprio per questo possiamo tranquillamente affermare che il vino naturale non esiste, molto meglio definirlo vino vero o vino artigianale.
Certo a Fornovo trovate anche vini abominevoli, con puzze tremende che vi faranno tremare le ginocchia e venire voglia di strapparvi il naso a colpi di machete, tuttavia è innegabile che questo movimento abbia sensibilizzato sia produttori che consumatori, spingendoli ad una svolta, ad un consumo più consapevole e ad una produzione più pulita.
E noi essendo avidi consumatori, non possiamo che rallegrarci di una maggiore attenzione per la sostenibilità (in tutti i sensi) del vino. Questo non è un attacco ai produttori convenzionali, anzi la diatriba tra vini veri e vini convenzionali ci lascia del tutto indifferenti dal punto di vista bellico e di marketing, potrebbe anche essere Mazinga contro Goldrake. Non tutti possono essere biologici o biodinamici, ma ricordatevi che siamo noi consumatori a scegliere cosa comprare e quindi sapere cosa c’è in ogni bottiglia è un nostro diritto e dovere.
Ma essendo anche consumatori non dobbiamo accettare etichette fasulle, e prive di certificazione e coerenza, come quelle di cui si ammantano i vignaioli naturali. Basta chiamarlo vino naturale, è come la Cevico che definisce il Tavernello vino genuino. Basta, ci deve essere un controllo a queste buffonate, a queste manipolazioni da squallido marketing parassitario da quattro soldi. Ci mettiamo anche gli ingredienti naturali del risotto Knorr, va bene dai mettiamocelo.
Andate a leggere gli ingredienti del risotto Knorr. La parola naturale è stata martoriata fin troppo, è stata piegata a logiche da mercato delle pulci per cui è ora di potare i rami secchi. Per chiudere, ho parlato con centinaia di produttori e vignaioli cosiddetti naturali, e nessuno (no forse un paio sì…) ha mai avuto il cattivo gusto di definirsi naturale a parole. Lo ha dimostrato con i fatti ed è questo che conta.
Per cui lasciamo affogare nel mare di infinita tristezza il termine naturale e impariamo a conoscere i produttori, per potare i rami secchi e vedere chi produce anno dopo anno, secondo annata e sensibilità. Quella è la discriminante che fa capire quando un vino è vero oppure no, non le etichette fighette o il marchio di vino naturale.
Bene, il ditirambo è finito, non doveva essere così lungo, perché in realtà volevamo parlarvi di un grande vino che abbiamo assaggiato ultimamente. E che ci ha colpito per la sua perfetta imperfezione: il Ponte di Toi. Il Pigato, Vermentino in purezza, di Stefano Legnani.
È un vino puro e duro, ma scolpito nella salsedine delle Liguria con soavità incredibile. È un vino senza compromessi che sa tradurre in infinite sfumature di eleganza l’aria, la terra e l’acqua di Sarzana, è un vino simbolo della rivoluzione umanistica del vino.
E sono i suoi mille volti a spingerci a berne ancora un sorso e a dichiararlo vino vero, perché non si limita ad una sola dimensione, non ha solo slancio verticale, ma si espande come l’alba, come la luce, i suoi profumi si intrecciano a note contrastanti morbide e salmastre, altre leggermente ossidate, ma soprattutto sono intensità, persistenza e spessore in bocca a risultare esaltanti.
Il bouquet del Ponte di Toi 2016 di Stefano Legnani
Il naso è ancora timido, non va bevuto troppo ghiacciato altrimenti ne esce mortificato e contratto. Ma dategli un paio di ore e avrete i profumi solari del Vermentino, una ridda di erbe aromatiche, il sale del mare, pesche, poi ancora salvia, cedro e macchia mediterranea. Ma perché ve li elenchiamo per fare i fighi? No, solo per aprire uno spiraglio su un capolavoro, mettervi la pulce al naso.
Il sapore del Ponte di Toi 2016 di Stefano Legnani
In bocca è pieno, sontuoso, solcato da rivoli di sale. E poi ritornano qui toni balsamici che si sentivano al naso, quasi resine. La struttura è molto ampia, lo spessore si prende a morsi, forse manca ancora un pelo di equilibrio, ma questa annata 2016 è stata imbottigliata da poco ed è ancora giovane, ma merita un posto d’onore nella vostra cantina nei prossimi anni. Aspettate ancora 2 anni e sarà stupendo. Persistenza da urlo, finale di fiori di arancio, acacia e menta.